“Qual piuma al vento…”. #MeToo
by Sebastiano Bazzichetto
TORONTO – Nella bianca fioccata pomeridiana dello scorso 4 febbraio, nulla poteva rallegrami più di un paio d’ore in compagnia di un vecchio amico musicale e delle sue note immortali. Per la seconda ed ultima parte del cartellone di questa stagione torontina 2017-18, è tornato sul palco del Four Seasons Centre ad incantare con le sue arie e la sua musica il genio italianissimo di quel Giuseppe che negli anni fu figlio e padre del Risorgimento e della nuova Italia unita. Il suo Rigoletto, visto l’ultima volta qui a Toronto nel 2011, viene diretto dal newyorkese Christopher Alden che applica larghe pennellate, per usare un eufemismo, di modernità ed attualità in una produzione che propone ad un pubblico più e meno avvezzo non poche eccezioni rispetto al libretto originale. La lista degli ammiratori e dei detrattori di questa produzione della Canadian Opera Company è lunga, si sa, un po’ come per tutti gli spettacoli messi in scena in contesto nord americano, un ambiente culturale meno ligio ai diktat della filologia, prono agli adattamenti, anche ai più bizzarri, a volte, claudicanti (basti ricordare lo strampalato Don Giovanni di un paio di anni fa per la regia di Dmtri Tcherniakov).

Costumes and set design by Michael Levine worthy of Luchino Visconti for this COC’s production of Rigoletto • Photo credits © Michael Cooper
L’opera
Composto nel 1851, Rigoletto fa parte della cosiddetta “trilogia popolare”, insieme a Trovatore e Traviata. La preclara vicenda è agilmente riassunta: Rigoletto, buffone alla corte di Mantova, vive insieme alla sua unica figlia, Gilda, che cerca di proteggere dai mali del mondo (e dell’ambiente cortigiano) tenendola nascosta in casa. Il Duca di Mantova, noto libertino, fingendosi uno studente squattrinato, riesce a blandirla e a conquistarne le grazie “ed il fior”. Con l’aiuto dei suoi leccapiedi e cortigiani infatti, il bel Duca la rapisce e passa la notte con lei per poi abbandonarla. Il deforme buffone assolda allora un sicario per vendicarsi del suo signore. Tuttavia Gilda, profondamente innamorata, indossa gli abiti del nefasto seduttore e si sacrifica per salvarlo. Il libretto, scritto dall’inseparabile (per Verdi) Francesco Maria Piave è tratto da una scandalosa pièce teatrale del francese Hugo che nel suo Le roi s’amuse mette alla berlina il potere sovrano, ne denuncia i soprusi e condanna le disuguaglianze sociali della metà dell’Ottocento. Come Hugo tornava agli splendori della corte di Francesco I, così il Rigoletto verdiano viene ambientato in un lontano passato tra le mura (riccamente affrescate di un Palazzo Te, immaginiamo noi) nel Ducato di Mantova.

Gilda (Anna Christy) e Rigoletto (Roland Wood) • Photo credits © Michael Cooper
La regia
Con un pizzico (a tratti eccessivo) di attualità, Alden mette in scena un Rigoletto in cui l’angelica Gilda sembra, a giusta ragione, gridare al mondo un infiammato #MeToo, come le tante attrici e donne di Hollywood che negli ultimi mesi si sono esposte per denunciare abusi e molestie da parte di produttori e registi.
Tra le lignee pareti di un circolo per gentiluomini della Londra vittoriana, la dorata corte mantovana svanisce tra il fumo dei sigari, le pagine stropicciate dei giornali e le fugaci scappatelle di un nutrito numero di signorotti, duchi, baroni e connestabili in frack e marsine. Certo, qualcuno potrebbe dire che questa infusione di modernità è forse stiracchiata e poco coerente con il libretto originale, ma ciò che colpisce di più è il fatto che, con questa nuova drammatica eroina alla ribalta, scompare il Rigoletto del titolo e tutto ciò che il suo ruolo di padre e buffone rappresenta per Verdi. Insomma, chi manca sulla scena è proprio lui, Rigoletto. Intendiamoci bene, il baritono scozzese Roland Wood dà prova di una discreta interpretazione vocale ma perde, non per colpa sua, la presenza scenica e drammatica dell’opera verdiana. Diventa infatti un “monstrum inter pares” (e non poi tanto mostruoso o deforme, a parte un cappello a punta che indica il suo stato di fool o giullare), privato di quella natura anfibia tra il cortigiano ed il saltimbanco che gli permette di avvicinarsi ai potenti ma che del potere è voce ed occhio critico della società circostante, unico elemento in grado di discernere il male nell’ambiente della corte.
I costumi e la scenografia di Michael Levine
Se avete adorato i nobili interni della villa di campagna di “Call me by your name”, se amate i broccati di velluto ricamati del Ludwig viscontiano, la scenografia e i costumi di questa produzione sono davvero splendidi. Degni di un film di James Ivory per ricercatezza di dettagli e colori, la Londra vittoriana qui ritratta prende vita grazie all’interno (unico) di gusto decadente (alla Wilde, Huysmans, von Hofmannsthal) che non si risparmia una boiserie in legno scuro, un imponente soffitto a cassettoni, palme da interno in vasi orientaleggianti, lucenti portasigarette, pagine di giornale fresche di stampe (occhieggia una fantomatica “Gazzetta di Mantova”), bicchieri di brandy, un camino in stile Giacomo I e lampade ad olio. I costumi sono altrettanto degni di nota per l’attenzione minuziosa ai particolari: vi è un turbinio di frack, giacche da giorno con la coda, cravattini e bretelle, favoriti asburgici o alla Alberto di Coburgo-Gotha, ingombranti e romantiche crinoline degne delle dame di Ingres o degli impressionisti francesi, ventagli e gioielli del Secondo Impero.

Roland Wood as Rigoletto and Anna Christy as Gilda in the Canadian Opera Company’s production of Rigoletto, 2018. Conductor Stephen Lord, director Christopher Alden, set and costume designer Michael Levine, and lighting designer Duane Schuler • Photo credits © Michael Cooper
Le voci, musica e coro
Senza dubbio anche il cast presenta qualche interessante aspetto vocale: la tenera Gilda (Anna Christy) è dotata di presenza scenica e realismo quasi filmico, rivelando qualche difficoltà negli acuti; il bel Duca (Stephen Costello) incanta il pubblico in sala con la sua fascinosa presenza ed una voce calda e ben sostenuta, dando prova di un’ottima interpretazione nella famosa “La donna è mobile” del secondo atto. Wood, Rigoletto, è un baritono maturo anche se non coglie sempre a pieno le note della personalità del personaggio che interpreta, traballando con la dizione in italiano. Impeccabile come sempre l’esecuzione da parte del coro diretto da Sandra Horst e quella dell’orchestra sotto la bacchetta di Stephen Lord che deve talvolta interrompere lo spartito ex abrupto per motivi di regia.
In questa resa moderna e, forse, non sempre efficace del capolavoro verdiano, in cui spesso voci e musica scendono in secondo piano, il “qual piuma al vento” è senza dubbio l’appellativo che deve essere affibbiato al contingente maschile, denunciando sul palco le atrocità troppo a lungo taciute e subite da chi, agli occhi di molti uomini, è semplicemente un oggetto del desiderio e ben poco, veramente capita, “bella figlia dell’amore”.
[Rigoletto è in scena al Four Seasons Centre fino al 23 febbraio 2018]
Ottimo Sebastiano! Condivido totalmente il tuo accurato commento che mi aiuta a definire piu’ dettagliatamente le sensazioni che la rappresentazione m’ha suscitato. La traslocazione della scena (dal Mantovano al Britannico, indiscutibilmente) puo’ esser oggetto di discussione ma innegabilmente apprezzabile e comunque effettivamente ben elaborata e quindi efficace quanto i costumi e l’allestimento. Perfettamente d’accordo pure sulla relativa efficacia del “personaggio” Rigoletto/Wood mentre m’ha entusiasmato quello di Gilda/Christye. D’entrambe valida la portata vocale (mentre, da questo punto di vista, c’ha convinto meno Costello/Duca che ritardava quasi sempre l’attacco).
Rudy.
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