Un luogo comune: la solitudine dell’autore

Un luogo comune: la solitudine dell’autore

by Ilaria Gaspari

SU UN TRENO – Ci vediamo la settimana prossima? Ci sei?

Certo, rispondo. Poi, ogni volta arriva la consapevolezza. No che non ci sono, la settimana prossima. Sono a Casalpusterlengo. A Ovindoli. A Busto Garolfo o a Sperlonga. Oppure, impegnata a cercare di raggiungere una a caso fra queste località. La settimana prossima, dunque, sarò su un regionale. Un espresso. Un treno merci. Starò dormendo con un’innaturale angolazione del collo, quella imposta dai treni regionali, da quei bizzarri poggiatesta rotondi che non si sa per quali strane teste piatte siano stati progettati.

Sarò impegnata a perdermi nella provincia italiana. Da molto tempo ormai la sto esplorando in lungo e in largo, in tutte le sue vertiginose profondità. Vi chiederete cosa ho fatto per guadagnarmi questo destino, ed è presto detto. Ho scritto un libro, la chiamano promozione, dura da due anni; i più salaci fra i miei amici ne ridono e sostengono che invecchierò su un treno. Del resto, quando due o più scrittori si incontrano, potete stare certi che quello del viaggiare con il proprio libro – con tutte le peripezie, le avventure e le disavventure del caso – sarà uno dei più succosi argomenti di conversazione.

Per me, che probabilmente non mi sarei scelta questa vita se non fossi profondamente nevrotica, e che essendo profondamente nevrotica pur avendo la patente non guido, è come un grande interrail; una panoramica su infinite scarpate ferroviarie, uno sconfinato biglietto di treno che ti spedisce a esplorare i più reconditi segreti della solitudine, delle ferrovie e della provincia.

Di scrittori che hanno usato la provincia come un grande indice analitico delle cose dell’Italia, ce ne sono stati, e molti. Piovene l’ha fatto per la RAI negli anni Cinquanta: ne è uscita un’opera monumentale. Luca Goldoni, nell’84, l’ha rivelata nel suo Viaggio in Provincia, Roma inclusa. E molto più di recente, il tempo apparentemente immobile delle cittadine e dei paesi l’ha raccontato Franco Marcoaldi. Una cosa è certa: per raccontare la sterminata provincia italiana ci vogliono dei criteri. E mentre guardavo case e campi fuori dal finestrino del treno, mi sono inventata i miei personali, che di certo non sono esaustivi, anzi, nemmeno ci si avvicinano; sono i miei modestissimi luoghi comuni su questo sterminato luogo comune che ho percorso a bordo di vari treni.

Il primo nasce dalla banale considerazione che la provincia sia di per sé un’esperienza metafisica in grande stile. Il senso di eterna domenica pomeriggio che ti dà una città piccola, in particolare la sua stazione, quando arrivi e nessuno ti aspetta, o quando aspetti un treno che non arriva: questo resterà sempre il primo dei criteri che definiscono la provincia come l’ho conosciuta in questi anni. La larga pace domenicale di un posto sconosciuto, i suoi rumori attutiti dal senso di estraneità, quella noia sottile in cui senti rimbombare passi e pensieri, e qualche volta capisci qualcosa; è una sensazione che amo, di un amore profondo e senza spiegazioni. Anni fa, studiando per un esame, avevo trovato un passo di Heidegger che, con parole scomposte e ricomposte alla sua solita maniera, sosteneva che la domenica pomeriggio e l’attesa di un treno in una piccola stazione distillassero momenti di straniamento metafisico. Nella mia testa, nel mio lungo tour dell’Italia, la piccola stazione e l’idea della pace domenicale si sono fuse trasformandosi quasi in un’unità di misura del tasso di provincialità dei posti. Che non è, per me, una caratteristica negativa. Tutto al contrario. Perché non è vero che la provincia è immobile; è vero, però, che il tempo della solitudine, in provincia, sembra scorrere in modo diverso che in città.

Una seconda unità di misura, naturalmente, è la gastronomia, perché come molti cliché è vero anche questo: è vero che in provincia si mangia molto spesso meglio che in città. Ma è ovvio che ogni cittadina è diversa dall’altra, ha tic e rituali che non sempre il forestiero conosce; al ristorante, se è fortunato e se tiene gli occhi bene aperti, li può intuire.

E un terzo criterio che definisce la provincia, poi, a pensarci, c’è eccome. Nelle città grandi, i necrologi non sono mai affissi per strada. Si trovano solo sulle pagine dei giornali; e molto spesso i defunti che vengono compianti sono Prof. Dott. o Avv. o Ing.; molto spesso, se sono delle signore, hanno soprannomi tronchi che finiscono per -y, o anche con una più sobria -i, e raramente il loro cognome da ragazze è seguito da un ‘in’ che preceda quello del marito. In provincia, invece, i necrologi sono affissi per le strade. E dicono l’età, e i conforti religiosi e la presenza dei cari; se c’è un soprannome, di solito è preceduto dalla parola ‘detto’, e raramente, poi, è un’abbreviazione del nome. Spesso è l’unica testimonianza superstite di qualche battuta salace, o di qualche impresa misconosciuta vecchia di almeno cinquant’anni. Le signore sono tutte ‘in’, o ‘nei’, oppure (abbastanza spesso per la verità), ‘ved.’. Un necrologio umbro, che ho visto solo in foto, commemorava una coppia di vecchietti aureolati, circondandoli del nugolo dei nipoti e dei figli – pure loro nell’alone di luce di tante piccole aureole. Era un incrocio splendido fra Giotto e un poster di Bollywood; i nomi dei defunti al centro, come fossero i protagonisti di un film; i parenti superstiti elencati come comparse. Che chiedevano un’intercessione dall’aldilà. E mentre lo guardavo, ho provato una tenerezza in cui si è sciolto tutto il nevrotico terrore della morte che di solito mi attanaglia. Forse per questo i necrologi, in provincia, me li leggo tutti quanti; e quando li leggo, mi sento scorrere intorno una vita più disposta all’indolenzimento che al dolore; ma in fondo lo so bene, che mi pare così rassicurante solo perché mi fa sentire, sempre, blandamente forestiera.

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