by Gianpietro Miolato
VICENZA – Questa recensione è atipica. E lo è volutamente.
Ho deciso di parlare di un ristorante non parlandone perché volevo affrontare un tema che mi sta a cuore: la confusione tra quelli che definirò “giudizi di valore” e “fatti di sostanza”.
Il pezzo riguarda un ristorante di cui facilmente potrete trovare vita, morte e miracoli navigando in internet – in una forma più convincente della mia.
Ciò che mi premeva era imbastire un discorso che, pur partendo da un argomento particolare, potesse avere una natura generale.
In un’epoca in cui la discussione sulla cucina è trascesa nella sua rappresentazione più esasperata e superficiale, è difficile descrivere un ristorante emancipandosi da un approccio soggettivo e, il più delle volte, pornografico.
Il concetto stesso di “food porn” (e i suoi vari hashtag) indica chiaramente un approccio del tutto egocentrico in cui la pubblicazione di una foto serve all’utente per stabilire una distanza qualitativa rispetto agli altri.
Salvo sparuti casi, non c’è l’intento di porre al centro dell’attenzione un piatto con l’idea che sta nella mente dello chef che lo ha preparato, ma c’è piuttosto la volontà di dire alle persone connesse che si è provato un ristorante di nicchia, della serie “io l’ho fatto e voi no”. L’egotismo visivo confonde il punto di vista di chi immortala un’immagine con l’oggetto immortalato. L’immagine di un piatto non è più rappresentazione di un alimento bensì il riflesso di chi lo guarda, di chi può permettersi di guardarlo.
È difficile stabilire il confine che divide la capacità di descrivere un’esperienza dando rilevanza agli elementi dell’esperienza in sé, rispetto invece al soggetto che quell’esperienza la prova. L’uno non esclude l’altra, ma occorre distinguere di chi/cosa si sta parlando. La questione si complica quando a trattare di un ristorante ci si trova di fronte ad un luogo nato assai prima dell’esplosione dei social media, quando cioè erano ancora le guide scritte e stampate a presentare i locali.
Se ci si interessava di un ristorante di un certo tipo, occorreva sforzarsi per capire di cosa si trattasse. Ci si doveva confrontare con chi ci era già stato, o era necessario andare alla ricerca di un testo specialistico che ne discutesse, senza troppe foto a presentare i piatti o il servizio, ma con solo la parola scritta a fungere da collante tra il desiderio di provare il tal locale e la sua concretizzazione.
Lo sforzo permetteva di avere un approfondimento maggiore e, spesso, una predisposizione al giudizio che tenesse almeno in considerazione la fatica messa in atto per soddisfare il desiderio. Naturalmente non per tutti era sufficiente, non tutti riuscivano ad esperire un pasto senza confondere giudizi di valore (“è buono perché mi piace”) con fatti di sostanza (“è buono perché è preparato correttamente”), ma la diversa accessibilità poneva dei limiti che dovevano esser superati previo un informarsi in modo analitico e non superficiale.
Laddove, però, non ci fosse stata la volontà di superare degli ostacoli informativi, a farla da padrone si trovavano i luoghi comuni a soddisfare il desiderio di conoscenza.
A Lonigo uno dei luoghi comuni più diffusi sulla ristorazione è che a La Peca “te spendi tanto e te magni poco” (spendi tanto e mangi poco). E alla domanda su quando si è avuto modo di imbattersi in questo spiacevole intoppo gastronomico, la risposta è che lo si è sentito dire. Sarebbe da folli spendere così tanti soldi per un pasto!
Qualcuno (non si sa bene chi) ha riportato che è così, e dunque, comparando il numero di pasti che si potrebbe comprare alla sagra paesana col conto de La Peca, automaticamente (dogmaticamente e deontologicamente) si è assunta questa verità come assoluta e incontrovertibile.
È difficile contestare un’idea di questo tipo. Non perché sia del tutto fallace nella forma in cui è strutturata, ma perché rappresenta una forma mentis diffusa endemicamente.
Ma guardiamo i fatti: un menù degustazione consta di 9 portate, a cui poi vanno ad aggiungersi benvenuti e saluti. Per chi lo desidera c’è anche la mescita di 3 o 4 calici di vino. Terminato un menù di questo tipo, è improbabile essere affamati. Non impossibile, ma improbabile.
Ma questo non è il punto principale.
Il focus del discorso riguarda l’idea che si ha della ristorazione. C’è chi vede l’andare in un ristorante esclusivamente come la soddisfazione dello stimolo della fame, diciamo “un approccio nutritivo”; c’è invece chi la vede come la soddisfazione di un percorso gustativo, diciamo “un approccio conoscitivo”.
In questo specifico caso, La Peca non propone esclusivamente un pasto che rifocilli lo stomaco, ma propone un’esperienza.
Non si paga solo il piatto – che comunque non è esattamente il bigolo con l’anatra che si trova in un qualsiasi altro ristorante –, ma si paga un insieme di elementi (servizio, presentazione, ambiente) che si prefigge l’obiettivo di rendere unico quello specifico momento.
Che piaccia o meno, è un discorso collaterale. I giudizi di valore sono del tutto soggettivi e non argomentabili. Qui si discute di un approccio generale.
Inoltre, e non meno importante, nel conto si paga il bagaglio di storia (il locale è aperto dal 1987) e competenze che ne fanno un’eccellenza nel panorama gastronomico italiano.
La tradizione del territorio è proposta nelle massime espressioni tecnico-culinarie cui può ambire. E se è vero che si può pasteggiare in modo assai egregio spendendo pochi euro andando direttamente alla base della filiera produttiva, è pur vero che la preparazione dei piatti e le performance esecutive giustificano il prezzo – a cui poi va ad aggiungersi un rincaro che ogni azienda applica sui propri prodotti, è normale.
Si deve evitare con tutto se stessi la confusione tra snobismo e costo elevato. Sia in ambito critico, sia in ambito mitizzante.
Non deve verificarsi il pubblicare una foto di un piatto come metro di misura delle proprie possibilità, così come si deve evitare la discussione sul rapporto costo/porzioni confrontando un pasto de La Peca col pranzo domenicale dalla nonna. Sono ambiti diversi e non confrontabili.
Siete liberi di scegliere un approccio nutritivo ad un approccio conoscitivo. Ma formate un pensiero vostro. Anche laddove doveste pagare molto e non foste soddisfatti, sviluppate un’autonomia di giudizio che vi permetta di giustificare le vostre opinioni. State lontani dai luoghi comuni. Siate originali e non esibizionisti. Evitate la confusione tra ciò che vi piace con ciò che è ben fatto. Partite dal gusto ma abbiate la curiosità di non fermarvi esclusivamente a questo.
Tutti sono abili nel lodare i locali che sono ora idolatrati dalle mode culinarie, così come tutti sono abili nel criticare questi stessi locali liquidandoli con luoghi comuni.
Evitate il più possibile di comportarvi così.
Ci guadagnerete in originalità e credibilità.
La Peca esiste da oltre 30 anni per dimostrarvelo.