by Johnny L. Bertolio
TORINO – A giudicare dai costumi sembrerebbe che alla regia ci fosse Tim Burton. Invece no: per il suo esordio all’opera John Turturro ha scelto un libretto, Rigoletto (G. Verdi-F. M. Piave), e un’atmosfera dai toni volutamente cupi, nebbiosi, shakespeariani. La corte di Mantova, sostituita a quella francese del dramma di Victor Hugo causa censura, appare immersa nella proverbiale foschia della pianura padana, che ne rappresenta la decadenza morale.
Il Duca, un don giovanni insaziabile e interclassista, miete le sue vittime tra nobili e popolane, tutte di nero vestite. Tranne una, Gilda, la figlia (non l’amante, come credono i più) del buffone Rigoletto. Lei, bianca come il suo ribadito onore, apre uno squarcio d’innocenza nella depravazione, anche se alla fine ne sarà vittima, sacrificandosi da eroina greca per salvare la vita del claudicante padre. Con efficace metafora, la sua veste si tingerà di rosso nel corso dell’opera: il colore della perduta verginità, del martirio e anche della maledizione (di rosso è vestito lo spaventevole conte di Monterone, che come un’erinni incombe su Rigoletto).
La ridotta scala cromatica, che peraltro fa da pendant ai sedili e alle pareti della sala, è arricchita da una scenografia realizzata per sottrazione. Impeccabili, tranne forse proprio nell’aria La donna è mobile, su cui qualche spettatore ha fatto partire il karaoke, i cantanti. Nel cast (citiamo quello non principale) Rigoletto ha la voce di Amartuvshin Enkhbat (Mongolia); Gilda quella di (nomen omen) Gilda Fiume, che ha preso di petto i virtuosismi della partitura senza far incrinare il cristallo dei lampadari; il Duca quella di Iván Ayón Rivas (Perù); Sparafucile quella di Romano Dal Zovo, l’unico davvero avvenente. Infatti, a parte gli sforzi d’immaginazione, com’è tipico in questi casi, per rendere verosimile l’attrattiva dei protagonisti nella trama, le voci sono in un equilibrio delicato e fluido di dizione, suono e persino qualche passo di danza, per un Verdi godibilissimo.
Fondamentale il contributo del coro, istruito da Andrea Secchi, e ovviamente dell’orchestra, sprofondata nel golfo-abisso mistico del Regio sotto la guida dell’appena visibile maestro Renato Palumbo, la cui bacchetta ha diretto sia i musicisti sia i colpi di tosse di stagione delle matrone torinesi.
La produzione, frutto di una collaborazione con il Teatro Massimo di Palermo, dove ha debuttato, la Shaanxi Opera House e l’Opéra Royal de Wallonie-Liège, completa la cosiddetta trilogia popolare verdiana e lascia ben sperare sul futuro di Turturro. Magari con uno spettro coloristico più variegato e altrettanto memorabile.
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