by Carolina Trupiano
FÈS – Distanziamoci dalla conturbante Marrakech. Dal caos del Souk che ti avvolge, coinvolge e stordisce, con il movimentato andirivieni di commercianti, di ceste di frutti esotici e mandorle, di profumi di spezie disposte in piramidi coloratissime, con i suoi mille richiami di venale futilità: la Caverna di Alì Babà si nasconde in ogni angolo per attirarti nel magico mondo dell’artigianato autoctono. Lo splendore degli oggetti pour la maison insieme agli accessori in pelle, dalla fattura semplice e raffinata e dal prezzo modestissimo, sono un colpo al cuore per noi occidentali, la cui vanità d’acquisto non è mai assopita.

Fès – All pictures by the author © 2019
Dimentichiamo anche gli incantatori di serpenti di Jemaa el Fna, la piazza principale dove regna un mondo da fiaba in un susseguirsi di magiciens, decoratrici velate, venditori di ceste di vimini, banchetti di carne con le braci accese, agricoltori accompagnati dai loro muli per trasportare il banco di banane e avocado. Così, teniamo tra i ricordi i favolosi giardini di piante rare e cactus centenari creati da scrupolosi occidentali che ne fecero la loro dimora per il fascino incondizionato che regna sulla città, il caso dell’artista francese Jacques Majorelle.

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Una traversata nel deserto verso il nord del paese vale totalmente la pena per giungere in un luogo – altrettanto ma diversamente – incantevole, Fès, la più bella e maestosa tra le antiche città imperiali. Un gioiello semi sconosciuto, che cela in sé un immenso tesoro di storia e bellezza, portato alla luce dai recentissimi restauri durati sei anni – i cui finanziamenti sono stati per la maggior parte esteri – che le hanno ridato la luce che merita.

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Giungiamo in una buia notte di maggio nel cuore della città con un petit taxi rosso, seguendo le istruzioni telefoniche del padrone del nostro Riad, che cerca di assicurarsi che non abbocchiamo a qualche amo, viste le numerose persone che vogliono condurti con loro, in qualsiasi luogo, con qualsiasi mezzo. Una poco sottile sensazione di angoscia continua a pervaderti, nella scoperta di questo paese. Un senso di sfiducia che non vorresti avere, ma per cautela sei obbligato, perché facilmente potresti cadere nelle continue lusinghe, nelle finte simpatie, nelle indicazioni sbagliate dei bambini per la strada. Quindi, saliti su un vecchio pandino rosso, stretti a noi, con tanto di valigie legate sul tettuccio, arriviamo alla gigantesca Bab Boujloud, la cosiddetta Porte Blue, con decorazioni di ceramica di inizio Novecento color cobalto verso l’esterno, verde smeraldo – il colore dell’Islam – verso l’interno, che delimita i confini della città antica. L’oscurità della notte si fa ancora più intensa una volta che la si sorpassa, poiché le luci delle abitazioni esterne svaniscono, i portoni lignei delle botteghe sono serrati, incontri qualche ombra tra i cunicoli strettissimi che serpeggiano in una fitta trama abitativa: corriamo verso la nostra meta. È un dedalo di vicoli: per la precisione il più grande centro senza auto del mondo, cosa di cui gli abitanti sono fieri – e noi visitatori grati – e il cuore intellettuale del paese, centro di studio secolare, con una labirintica Medina ricchissima di attività artigiane, palazzi dalle strutture colossali e imponenti mura del IX secolo.
Il risveglio è dolce: un’impacciato marocchino che capisce qualche gesto e nessuna parola di francese, ci serve una petit déjeuner fait maison che mi stupisce per la cura e perfezione: una brocca di caffè forte e bollente, confiture de fraise da spalmare sui msemen (i pancakes marocchini), una ciotola di frutta (tagliata!) con yogurt, miele d’arancio e mandorle: sono rallegrata dall’essere servita in modo adeguato, gentile e attento. Di bianco coperta fino ai piedi, qualche trasparenza per sviare la lunghezza, tracollina oro e macchina fotografica alla mano, e siamo pronti alla scoperta della meraviglia del Marocco, io e il mio dolcissimo fidanzato.

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L’aria fredda della notte ancora si propaga tra i vicoli, facendoti salire qualche lieto brivido sulla schiena, ma svanisce ai primi raggi di sole sulla pelle: saliti su una terrazza panoramica vediamo i tetti di tutta la città, fino alle antiche rovine e alle colline verdissime all’orizzonte, mentre sotto di noi si apre uno spettacolo inconsueto e meraviglioso: le Concerie. Ammiriamo una scacchiera di vasche di pietra contenenti i pigmenti naturali con cui si diversificano le pelli degli animali per la lavorazione, dopo averle pulite, ammorbidite, rasate, e una grande ruota ci viene indicata come “la più antica lavatrice del mondo”. L’odore è acre, ci vengono date le foglie di menta per allietare l’olfatto. Decine di pelli di capre e cammelli sono stese sulle terrazze, mentre gli operai, come api dentro un alveolo, lavorano con le stesse tecniche tramandate dai loro antenati fin dal XVI secolo, sporcandosi le gambe di blu indaco, del giallo della curcuma, del verde della menta: lo spettacolo è unico.
I negozi degli svariati oggetti in pelle ora ti ammaliano ancora di più e quel delizioso pouf con decorazioni viola e oro diventa presto tuo. Le congregazioni artigiane ti accolgono, mostrano fieramente i loro prodotti, in modo convincente ma celando la timidezza dell’approccio ‘fresco’ verso il turista sconosciuto, senza trasmetterti quell’angoscia che i venditori di Marrakech, abili habitués del commercio da strada, creano senza lasciarti scampo nelle trattative del mercanteggiare. Le merci esposte nelle stradine labirintiche del mercato si differenziano tra gli oggetti per gli abitanti del luogo, di uso comune, e quelli del tradizionale artigianato locale, di grande raffinatezza, frutto di una cultura millenaria, adatto al turista esperto, che cerca oggetti unici, non solo souvenir scontati di un Oriente sdoganato.

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L’arrivo alla Moschea ci immerge nel fascino del proibito, possiamo intravedere il rito solo dall’esterno, attraverso tendaggi bianchi e portoni semiaperti, dentro cui si cela un mondo di religione e sacralità, di preghiera e amore, estremismo e intolleranza. Gli esterni decorati di mosaici coloratissimi, a disegni fitomorfi e lettere arabe, gli interni dalle pareti dorate, il cortile di marmo bianco con la fonte della purezza, l’austerità degli archi e il senso di intima riservatezza, i tappeti sul suolo… chiudiamo gli occhi e siamo nel sogno di Mille e Una Notte. La Moschea al-Qarawiyyīn, fondata nell’857 da una donna, Fāṭima, figlia di un ricco commerciante che decise di usare la sua eredità per il bene del suo popolo, facendovi seguire la fondazione della limitrofa Università islamica, la più antica del mondo, centro spirituale ed educativo con una ricchissima biblioteca di testi coranici, per questo ancora oggi centro pulsante dell’élite culturale del Nord Africa.
Camminiamo fino al quartiere nuovo, all’estremità con il ghetto ebraico: trovo la città pulita, luminosa, perfetta. Non c’è soffocamento, le alte mura donano protezione, l’assenza dei mezzi motorizzati dà conforto, la riservatezza delle persone è ammirevole: a Fès regna una grande raffinatezza. I giardini reali, un’oasi di piante e colori, antichissimi cactus e stagni fioriti, sono a tal punto lussureggianti da far invidia alla Regina nel suo Regents Park. Decidiamo di arrivare, sotto il bollente sole del pomeriggio, alle Tombe Merinidi, le rovine dei giganti mausolei reali: circondati dalla storia e dalla grandezza di questi antichissimi luoghi di sepoltura della dinastia, ammiriamo tutta la vastità del paesaggio dall’alto, la planimetria della città, la costellazione delle lapidi bianchissime del cimitero sotto i nostri piedi, le colline verde smeraldo, le coltivazioni di aranci, un intenso celeste all’orizzonte: un acquarello, ricordo del viaggio in Oriente del 1826, di Eugene Delacroix balza alla mente.
Ci fermiamo per una merenda rigenerante: latte tiepido ai fleurs d’orangers, un misto di noci, pistacchi, datteri, albicocche secche così dolci e arancioni poiché appena baciate dal sole. La mia pelle tornerà perfetta dopo questa vacanza.
Così come il mio animo. Rigenerato da una sensazione di bellezza, così diversa dal consueto ma profondamente reale, autentica, ruvida, che non dimenticherò mai. Entusiasmato dai colori sgargianti, dagli odori avvolgenti, dai sapori inconsueti, dagli sguardi a momenti torvi, dai volti pacatamente gentili, da una spiritualità insita nel paesaggio… da un insieme di emozioni così contrastanti che hanno reso la mia scoperta dell’Oriente – di una sua piccolissima parte – un’intensa avventura, un motivo di riflessione, una gioia per gli occhi, un momento indimenticabile