by Sebastiano Bazzichetto
[ENGLISH VERSION/ADAPTATION BELOW]
VENEZIA – Da giovedì 20 gennaio sarà nelle sale italiane Spencer, il film presentato alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia per la regia di Pablo Larraín che dopo Jackie di cinque anni fa torna con un biopic che cerca di raccontare più o meno fantasiosamente l’ultimo Natale di Lady D presso Sandringham House, alla vigilia dal suo divorzio da Carlo.
Tenta sì ma non convince. A tratti manca il bersaglio.


A molti piacerà, molti altri lo odieranno. Come la monarchia inglese, come la regina Elisabetta, come Lady Diana Spencer, la principessa del popolo, la principessa triste, la principessa dei bisognosi. Ma anche, e soprattutto – ci ricorda lo sceneggiatore Steven Knight – HRH the Princess Of Wales, titolo che compare anagrammato sugli eleganti cartellini che accompagnano l’oculatamente selezionato guardaroba per quello che sarebbe stato l’ultimo Natale nel Norfolk con la famiglia reale.

Kristen Stewart cerca per quanto possibile di reggere 111 minuti che, ad un certo punto, piagano un’interpretazione fatta di occhi lucidi, mento abbassato, voce flebile ed uno sguardo da preda braccata, stanca e poco credibile.
Larraín pecca anche nel simbolismo oggettivale: animali ed oggetti che puntellano la pellicola in qua e in là perdono sin da subito il loro potere metaforico. Evocano ma non vanno al di là della mera associazione per simiglianza. E’ così per la giacca da caccia strappata allo spaventapasseri, è così per i fagiani che vediamo in svariati momenti, uccelli di cui si celebra l’impareggiabile piumaggio ma poco intelligenti, immolati sull’altare dell’irrazionale, aristocratica liturgia venatoria.


Come ci si aspetta, i tre giorni che fanno da cornice agli eventi filtrati dagli occhi, dalla mente e dell’animo di Diana, sono orchestrati secondo un rigido cerimoniale, anche quando si potrebbe pensare ad un ben più caloroso Natale “in famiglia”. Di caloroso, lo si capisce sin da subito, c’è ben poco, inclusa la temperatura degli aviti stanze e saloni (alla Stewart – fuor di metafora – viene fatto ripetere più volte «It’s so cold, turn the heat up» – espressione idiomatica che in inglese significa anche mettere qualcuno sotto pressione per fargli raggiungere un risultato sperato).

Il problema più rilevante del film è che gli spunti non mancano ma vengono sviluppati in maniera banale, fin troppo ovvia o risolti in modo sbrigativo. Larraín e Knight aprono molte porte e segnano molte piste che, alla fine, battono e ribattono grandi ovvietà. Il carotaggio psicologico dei personaggi è del tutto assente. Manca però – elemento ancor più grave – anche quello dell’indiscussa protagonista Diana. Le sue angosce, paure, illusioni e delusioni assumono i tratti di un onirismo grottesco (accentuato dalle musiche di Jonny Greenwood), superficiale e vacuo. Non si giunge mai all’incubo, tantomeno alle sue soglie. E le chirurgiche scene di bulimia ben poco aggiungono a ciò che già sappiamo.

La cifra estetica – questa, se non altro, piacerà – è corroborata dalla fotografia ben calibrata di Claire Mathon. La nebbia avvolge ed evoca naturalmente, non c’è bisogno di molto altro; in questo, sceneggiatori e scenografi si sono rivelati eccellenti. I costumi di Jacqueline Durran (già osannata per Pride and Prejudice, Atonement, Anna Karenina) aiutano notevolmente ed hanno tutto un loro pregio: non copiano o riproducono in maniera oleografica ma evocano ciò che Diana indossò o avrebbe potuto indossare in quei giorni. Il cappotto rosso coronato dal cappello nero con veletta e la mise gialla con il collare alla marinaretta e il tricorno vivificano lo stile che contraddistinse la principessa prima di diventare un’icona del glamour contemporaneo.

E anche la chiave di lettura finale lascia un po’ l’amaro in bocca: davvero all’etichetta, ai protocolli, alla bulimia, al guardaroba scelto, alla depressione, ai menù stucchevolmente pianificati l’unica risposta è una giacca da football, un cappellino da baseball, una corsa in macchina (pur sempre una Porsche) e tre hamburger da fast-food?
Ai posteri – o ai fan di Diana – l’ardua sentenza.
P.s. Dimenticavo, Chanel: avrete tutt* un disperato bisogno di Chanel… Ah no, quello è un altro film. Ad ogni modo, Lady D wears Chanel, se non ve ne foste accorti.

january 2022 is there an english version … with thanks
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Hello Heather, an English translation/adptation has just been provided at the bottom of the page!
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