Doppia Vu: la creazione, le donne, una città

Doppia Vu: la creazione, le donne, una città

by Beatrice Gaspari

MILANO – Se devo pensare a una mostra recente da cui sono uscita col sorriso, non ho dubbi: “W. Women in Italian Design”, a cura di Silvana Annicchiarico, nella cornice suggestiva della fondazione Triennale, una mattina d’inverno.
Il design mi appassiona solo relativamente; le mostre fatte a partire da una prospettiva di genere, anche.
Ma ho trovato la visita nel suo complesso un omaggio adattissimo alla ripresa culturale che Milano sta conoscendo da qualche anno a questa parte, anche se le protagoniste del design non sono – né sono state – solo milanesi.

Lasciate che vi racconti perché.

La mostra è concepita come un percorso circolare. Sfrutta, in questo, la particolarità architettonica del palazzo. Cerchio della vita, circolarità del tempo, muri stondati che sanno di labirinto e di filo di Arianna. Dietro l’apparente immediatezza dell’assetto, si legge una cura che lascia poco al caso. Una ragazza in maglietta bianca su cui spicca la rossa “T” di “Triennale” risponde alle domande dei visitatori. È preparata e appassionata, colta e sobria. Le chiediamo se può farci da guida. Lei ci mostra le creazioni, a cominciare da quelle ispirate al tessile: il filo di Penelope, l’intreccio di trame e storie, sono uno spunto forte per alcune produzioni di designer contemporanee. Mentre lei parla, io leggo frasi, testimonianze delle autrici alle pareti.

Emerge la riconoscenza verso mamme che hanno stimolato in loro il senso del bello, anche a prezzo di sacrifici: il primo corredo comprato con i risparmi nascosti ricavati dalle lezioni di matematica della madre, “indipendenza economica femminile”. Le donne non dimenticano, con gratitudine e cura meticolosa, la lezione silenziosa e modesta delle madri, e ne fanno tesoro per crescere. Al centro della mostra, su carrelli che girano in tondo (il torchio, la multidimensionalità), le opere delle grandi: Lisa Ponti, Eleonora Peduzzi Riva, Sabrina Mezzaqui e molte altre. Le opere in mostra sono 650, le designer protagoniste 400. La progettualità femminile esplosa nel Novecento in maniera sensibile sia per quantità che per qualità è stata a lungo oggetto di rimozione: architetti e designer conclamati sono stati quasi tutti uomini, le donne relegate al ruolo di eccezioni, o spesso – semplicemente – espunte dal novero degli autorevoli.

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Anche attraverso l’allestimento, la mostra ribalta questa prospettiva: le opere sono mescolate tra loro, sistemate su troni mobili di altezza variabile. I carrelli elevano finalmente le produzioni all’altezza che si meritano, fornendo un riconoscimento retroattivo e sentito. Il risultato è un assembramento corposo, allegramente disordinato, a cui manca una gerarchia; una distesa di oggetti che, muovendosi, parla di cooperazione e complicità, di lavoro comune, condiviso. La schiera si esplica simbolicamente sotto lo sguardo benevolo di sante protettrici del lavoro femminile, disegnate da illustratrici e artiste e appese alle pareti. E se, come suggerisce la mostra, il design femminile è meno autoritario e asseverativo rispetto a quello maschile, perché il genere non è questione solo biologica, ma prima di tutto culturale, le opere dovrebbero parlarne: ecco infatti il tepee disegnato da Carla Accardi, coloratissimo e spensierato; i tavolini estrosi, le lampade, i portaombrelli che hanno fatto la storia dell’arredo italiano. Ma anche pentole, caffettiere, oggetti utili a chi conosce a fondo la vita operosa e gioiosa di una casa.

Noto elementi che ricorrono: l’ironia, il colore brillante, un tono pacato, che sembra qualche volta venato di understatement. Mi ha colpito un tavolo giapponese, sotto il quale sono appesi giochi da bambino: i bambini amano stare sotto il tavolo, allora perché non costruirci sotto un mondo conchiuso, fatto di gioco? Praticità e attenzione alle vere esigenze; l’utente ultimo evidentemente ben presente nella mente della creatrice.

Un carrello arranca. La nostra guida sorride, con orgoglio e tenerezza: “La mostra ha compiuto un anno, accusa il colpo”.

Procediamo; la sezione finale è composta da nove tavole rotonde in cui professioniste del design (curatrici, galleriste, archiviste…) dialogano tra loro. La domanda di fondo: cosa sta diventando il design? E le donne, che parte hanno in questo? “Design after design” è il titolo della manifestazione di cui la mostra è parte. Alcuni schermi colorati lanciano messaggi lievemente amari, frutto di ricerche: in Italia le donne si laureano di più, ma sono meno pagate e occupano posti di minor rilievo rispetto agli uomini; nelle donne, la conformazione cerebrale fa sì che l’attenzione muova più al dettaglio che verso un quadro di insieme. Questi spunti di riflessione sono sobri, per nulla arrabbiati. Dichiaratamente, vogliono solo suscitare nuove domande in chi legge.

Sono una donna, e sono uscita da questa mostra con un commosso senso di fierezza. Ne ho amato l’approccio non esclusivo né revanscista, ma gentile, attento, scientifico. Con gli occhi volti alla storia, e alle storie.

Le donne protagoniste di questa mostra sono le designer, ma anche le loro madri, nonne e bisnonne; le curatrici, ma anche noi visitatrici: chi di noi non crea? E, non ultima, la nostra giovane e bravissima guida.

Milano finisce per “o”, ma è femmina.


[La mostra resta aperta fino al 19 febbraio 2017 – www.triennale.org]

[http://www.triennale.org/design_museum/w-women-in-italian-designdesign-museum-nona-edizione/]