Tra il dentro e il fuori, il rovescio e il diritto
by Ludovica Camozzi
MILANO – Ieri sera sono stata a teatro.
Giunte al parcheggio, le mie amiche ed io abbiamo lasciato borse e cellulari in macchina, abbiamo infilato gli oggetti “consentiti” nelle tasche dei cappotti, abbiamo consegnato carta d’identità e – munite di cartellino al collo con la scritta VISITATORE – abbiamo percorso corridoi color pastello con “giocose” scritte riportanti il numero dei reparti.
Eravamo a Bollate, nel carcere (o meglio, Casa di Reclusione) più “illuminato” d’Italia (http://www.carceredibollate.it/Home/Default.aspx ). Qui infatti, oltre all’iniziativa del Teatro in-Stabile, si svolgono diverse attività culturali, ricreative e sportive – per non parlare di InGalera (http://www.ingalera.it/), unico ristorante in Italia ospitato in un carcere.
Ma non divaghiamo. Giunte in un’accogliente e calda sala teatrale con una gradinata in legno, ci siamo sedute in prima fila e accanto a me si sono seduti i due ragazzi che ci avevano consegnato i volantini dello spettacolo (i quali, evidentemente “interni” al carcere, continuavano a fare commenti su quanto accadeva in scena).
Lo spettacolo inizia e vengo subito colpita dalla bravura degli attori, sia nella recitazione, sia nella capacità di muoversi sul palco; premetto che per avere una percezione più “spontanea” e non “viziata” – non mi ero informata di nulla, né sul testo (Il rovescio e il diritto di Camus) né sullo spettacolo, ma le mie amiche ed io sospettavamo che gli attori fossero tutti detenuti del carcere.
Veniamo quindi trasportate in scene quotidiane di vita, di storie d’amore e di passioni, di vita e di morte, tra ironia – in particolare l’esilarante scena in cui una coppia di anziani ripiega a rallentatore un lenzuolo – e tragicità – straziante la scena che descrive l’incapacità di una madre di dimostrare il suo amore nei confronti del figlio; il tutto intervallato da profondi monologhi in una mescolanza di italiano e di diversi (a volte a me incomprensibili) dialetti.
Al termine dello spettacolo un’attrice ci ringrazia per gli applausi, ma ci invita – piuttosto – a scendere sul palco per “conoscerci” e scambiare due chiacchiere: rompe così la barriera tra pubblico e attori. Noi spettatori allora, risvegliandoci dall’incanto, scendiamo con lentezza e ci aggiriamo con discrezione sulla scena. E allora scorgo le lacrime della mia amica commossa e noto con simpatia la profonda diversità tra il riserbo nordico e la sfrontatezza del sud nella differenza di atteggiamento tra chi di noi si limita ad “origliare” da lontano le conversazioni altrui e chi saluta gli attori come se li conoscesse da sempre.
E così senti per la prima volta la voce, in un italiano un po’ stentato, di quel ragazzo che è stato zitto tutta la scena – perché, gli han detto, non poteva parlare – senti un’attrice che si lamenta del trucco che la invecchia, cogli la tenerezza negli occhi di un’altra che ti racconta dell’esperienza; scopri che, mentre le donne in scena erano tutte “esterne” – attrici del progetto teatrale E.s.t.i.a (http://www.cooperativaestia.org/) – solo gli attori erano “interni” (questo perché – ci raccontano – l’anno passato c’è stata una storia d’amore, con tanto di “fagotto”); e scopri che l’attrice che impersonava una prostituta – quella che più di tutti ti chiedevi chissà cosa avesse “combinato” – era in realtà la regista. E così cadono anche gli ultimi – non voluti certamente, ma forse a volte inevitabili – pregiudizi, e attori e spettatori, “interni” ed “esterni” (proprio così, con la dolcezza di chi non vuole usare altri termini, vengono indicati dall’attrice che ti racconta qualche retroscena) si mischiano, si confondono e non riesci più a distinguere gli uni dagli altri.
Ma poi – spezzando un po’ l’incantesimo – un secondino ti invita bruscamente a lasciare il teatro, prospettandoti altrimenti, con una sua certa ironia, la possibilità di una stanza con un letto a castello e allora, tu che puoi, ti avvii verso il mondo di fuori con in testa riecheggianti le parole di Camus sull’amore, la vita e la felicità.