Palazzo FORTUNY

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Scoperte e tesori, sogni e invenzioni

by Carolina Trupiano

VENEZIA – Luglio 2016. Viene indetto un concorso da parte della Fondazione Musei Civici Veneziani per un progetto di ricerca e inventariazione del materiale conservato nelle sale espositive delle sedi museali, custodito nei depositi, disseminato nella città lagunare, parte dell’immenso patrimonio storico ed artistico della Serenissima. Vengo selezionata, insieme ad altre quattro ragazze, giovanissime, intraprendenti. Veniamo dislocate nel territorio, in modo da occupare sedi diverse ognuna, e a me viene affidata la migliore che potessi desiderare: il Museo Fortuny.

La sua mole non si impone sul Canal Grande né sul limitrofo, ampio e luminoso, campo windowSant’Anzolo. Bisogna piuttosto addentrarsi in una laterale di Calle della Mandola, e ancora svoltare, per incontrare la maestosa facciata gotica di Palazzo Pesaro Orfei che ha mantenuto tutta la sua allure misteriosa, intrisa di quel fascino decadente che il suo ultimo proprietario gli ha conferito nel secolo dell’eclettismo elitario. Fu infatti Mariano Fortuny y Madrazo (1871-1949) che acquistò l’intero palazzo, prima per renderlo sede del suo atelier, all’ultimo piano mansardato, ampissimo contenitore di oggetti, tessuti pregiati, tele dipinte, macchine per la fotografia; in seguito, per trasformarlo in effettiva residenza di vita, costante luogo di creazione, sede di incontri, dimora per le sue personalissime creazioni artistiche e per le raccolte di oggetti da lui minuziosamente selezionati. Ricordiamo che Mariano, figlio d’arte, cresciuto a Parigi a contatto con la più esclusiva societé à la mode, sviluppò presto una predisposizione per la pittura, dimostrando uno spirito sfaccettato: si appassionò di musica, si dedicò alla scenografia e all’illuminazione teatrale, ottenendo enorme successo in tutt’Europa, fino alla creazione di tessuti – velluti veneziani dai disegni fitomorfi, da lui personalmente concepiti – e raffinatissimi abiti – tra cui il Delphos, lunga veste di impalpabile seta plissettata – facendo del suo nome l’effige del gusto e dell’eleganza decò di inizio secolo.

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Per questo motivo, giunta nella sede stabilita, sono rimasta estasiata dall’atmosfera e dall’alternarsi di emozioni che il luogo riusciva a suscitare. L’entrata secondaria, sulla corte interna, mostra tutto il fascino dell’antico, ostentando una voluta noncuranza – quella agognata dalle correnti intellettuali di metà Ottocento nell’ambito del revival gotico – con la presenza dei mattoni a vista, del glicine che cresce rigoglioso sul lato, dell’apparato ligneo, scurito dal tempo, posto a sostegno dei due piani nobili, incombente al punto da inglobare il pozzo rinascimentale. Partendo dalle cantine, adibite a spazi espositivi, con elementi rustici e luci soffuse, si accede alle sale attraverso strette scale di legno: abiti e valigie d’epoca interposti tra i dipinti di Mariano nelle buie sale del primo piano, con colori e decori che variano dal gusto medievalista – negli arazzi dalle sfumature dorate – alle esuberanze manieriste – nella sala affrescata di ghirlande e fiori, ovviamente dalla mano del maestro.

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Per raggiungere poi il secondo piano: una cascata di luce. Le tende bianche delle grandi finestre gotiche fluttuano nello spazio svuotato, arredato con raffinato minimalismo – grazie al costante lavoro di allestimento dell’architetto e direttore del museo, Daniela Ferretti –  e da lì, nell’angolo sinistro, si accede alla Biblioteca, sala destinata da Mariano stesso alla raccolta di preziosissimi volumi antichi, riviste, disegni: una piccola wunderkammer privata. E poi lo stretto accesso alla mansarda: la magia circonda il visitatore, la luce si incanala tra le travi, il legno rende l’atmosfera calda, i cuscini appoggiati su basse chaises longues ai lati donano sensazione di comfort, i tetti della città fanno da sfondo alla visione.

Questa la sede del mio lavoro. Non un museo, ma un contenitore di sogni, custode di tesori, luogo di scoperte. Infatti, già il primo giorno, mi attendeva la prima scoperta: un’imponente cassettiera conteneva una collezione di stampe e disegni, appartenenti ai secoli XVII e XVIII. Nell’esaminare i fogli, privi di una ratio tassonomica, e soprattutto, semisconosciuti, capivo che il mio lavoro iniziava con un emozionante e stimolante studio su circa seicento incisioni antiche.

Per identificarne autografia, appartenenza ad una serie, epoca dell’impressione, tramite il tipo di filigrana, le firme e le iscrizioni, mi sono appassionata alla ricerca, iniziando a notare i particolari, il legame tra i pezzi, le connessioni con la figura di Mariano, un collezionista – eclettico viveur del suo tempo, viaggiatore, artista e stilista – che aveva le idee chiare quando decise di attuare una simile selezione di opere: al fine di trarne – costantemente – elementi e caratteri, pose e gestualità. In veste di dotto connaisseur, si era voluto creare un prezioso catino di motivi da cui attingere, per tutta la vita. Selezionando una serie di incisioni che fossero da costante spunto per le sue creazioni, limitando la cerchia per lo più ai secoli dello splendore barocco, con raffinati exploits cinquecenteschi, egli formò un nucleo di rilevante importanza storica e collezionistica.

Integrazione e ispirazione per la sua vasta produzione pittorica e per la creazione dei magnifici tessuti, egli, attentissimo osservatore durante i suoi viaggi, artista pieno d’ingegno alla continua ricerca di stimoli e motivi decorativi, aveva trovato il modo di avere una fonte a portata di mano, che gli permettesse di non distogliere mai lo sguardo dai grandi maestri del passato.

Meravigliose le Vedute di Roma, serie che coglie l’antica Urbe in tutta la sua splendente decadenza, e i Capricci, tenebrosi affastellamenti di scheletri e rovine di Giambattista Piranesi, presente con numerosissimi esemplari; inimitabili gli abiti in broccato veneziano, i caftani di seta orientaleggianti e i turbanti indossati dai vecchioni, angoscianti e misteriose presenze della Via Crucis di Giandomenico Tiepolo, nell’edizione dei Fratelli Vallardi del 1812; raffinatissimi i tagli delle vesti delle dame di Antoine Watteau, nella versione incisa nel 1732 da François Joullain de Les Agréments de l’été; limpide nella loro precisione descrittiva le tre vedute di Antonio Canal detto il Canaletto, dell’edizione Remondini del 1770 ca.; scenografiche le architetture teatrali dei Galli Bibiena, incise da Ambrogio Orio e Carlo Antonio Bufagnotti verso il 1740; sagace e divertente la preziosa raccolta di Francesco Novelli, eseguita per volontà di Dominique Vivant Denon a Venezia tra il 1790 e il 1792, da una selezione di stampe di Rembrandt van Rijn.

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Non era stato preventivato uno studio sulla ricca collezione, ragion per cui la mia specializzazione in pittura veneziana e francese del Settecento si dimostrò determinante: un’ulteriore sorpresa e fortuna. Non solo un primo importante lavoro, ma un’esperienza unica, una possibilità di approfondimento, un costante e ravvicinato contatto con una serie di opere d’arte che non chiedevano altro che di essere  riscoperte, analizzate, custodite e ordinate dalle mie mani.

Ogni giorno, passeggiando tra le sale, analizzando i tessuti, sfogliando i volumi, lavorando negli archivi disseminati tra i meandri dell’enorme palazzo, mi chiedo: quanti altri tesori puoi celare, caro Fortuny?


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